I Racconti di Angiolino Fabbri
Se vi era in Pian di Macina un poverissimo fra i suoi abitanti era Giacomino, detto Jàcmèn. Tipo chiuso e brontolone anche quando era solo, che solo lo era per quasi tutto il giorno sin da sembrare uomo grandemente annoiato di tutto ciò che gli era attorno. Molto curvo di schiena, guardava sempre in terra. Ma la coda dei suoi occhi guardava se anche qualche ragazzino si avvicinava per tirargliil fondo delle braghe, come spesso capitava. Allora qualsiasi cosa teneva in mano volava velocemente verso il monello. Se il ragazzino si faceva prendere erano dolori, Jàcmèn con le sue mani vigorose e piene di calli, stringeva talmente forte la faccia al malcapitato da lasciargli grossi lividi. Ma era un buon diavolo, portava scarpe più grosse del suo piede, sempre senza lacci e senza calze. La giacca sempre aperta e lunghissima fin da toccargli le ginocchia e dondolante come uno straccio al vento. Portava i baffi, grossi e disordinati, il suo cappello non aveva età tanto era unto e bisunto. Era insomma una macchietta del paese, capace di rimanere delle ore seduto ai bordi della “pompa”. Si sappia che la pompa, così da tutti chiamata, era la fontana posta nel bel mezzo della piazzetta del paese, e lì Giacomino mezzo addormentato pensava e pensava, a che cosa? Lui solo lo sapeva. Era il fornitore di legna da ardere per molte famiglie, le quali oltre a pagarlo, gli davano un piatto di minestra. Bravissimo nel tagliar legna e forte nel portarla a casa, la sua “sardela” era sempre più grossa di tutti quelli che portavano in paese la legna. Non andava a Messa, ma mai nessuno lo sentì bestemmiare. Ogni sabato fino alla domenica sera elemosinava, ma non in paese. Si recava nei dintorni per tutte le case di campagna, ma una bella volta allungò il passo e arrivò fino a Firenze. A lunghe tappe, dormendo nelle stalle, per un bel po’ di tempo mancò da casa. Nessuno sapeva più nulla di Jacmèn. Quando un bel giorno da la “Cà ed Sotta” si vide arrivare Giacomino in mezzo a due carabinieri. –Per Bacco! Mo cus’el fatt Jacmèn?- Chiese qualcuno, -Ma chi al sa!- Rispose qualcun altro. Arrivato in paese s’avvio verso casa sua senza nemmeno salutare i militi. Che a loro volta, raccontarono ai curiosi paesani che Veggetti Giacomo, a Firenze, trovò cattiva accoglienza, sia perché non sapeva parlar italiano, sia perché elemosinava. Lo rimandarono a Bologna con il “foglio di via” poi con quella compagnia che si è visto, fino a casa in Pian di Macina. Da allora Giacomino girò con la testa ancor più bassa, si vergognava di essere stato fra due carabinieri, divenne stizzoso quasi cattivo, e ci volle un bel po’ di tempo prima che tornasse alla sua solita abitudine di tipo bonaccione. Ricordo di una sera che misurò il grado di paura di un salumiere e oste, Amato Scandellari. Il quale si uccideva da sè i maiali, che vendeva poi a pezzi o insaccati, nella sua bottega. Fu così che trovatosi Giacomino lungo il Rio di Canà, incontrò Amato che gli disse: -it què Jacmèn? Come al solit, vet al bosch?- Nò, incù nò, aiò ciapè un spen in un pà e am fa mel, ades a a vag a cà- Rispose Giacomino, poi chiese: -E te dun vett?- Al che Amato rispose: – A vag al Muraz a cumprer un ninèn- Giacomino di rimando gli disse: – Và pur e fa prest parchè al ven bur- Aiò la lampadeina tascabil- Rispose Amato, e lasciato andare il paesano per la sua strada, s’avviò verso quella casa da contadini. Quando vi giunse esaminò con cura da intenditore l’animale in vendita. Si recò in casa e iniziarono, lui e il contadino una lunga discussione. Si fece uno spuntino, si bevve parecchi bicchieri di vino, e infine si combinò l’affare , ma Amato quando aprì la porta, esclamò: -Mò le beli bur- -E se l’arloi al fa al si, mo vò a cgnusci la stre, in tri quert d’oura a si a cà- Gli rispose il contadino che cominciava a dare segni di ubriachezza. –Sé sé a vagh- E buttandosi addosso la “caparela” ed accendendo la lampadina Amato disse: -Bona not- S’avvio verso il sentiero che in forte discesa portava al rio. Ma s’accorse quasi ridendo che le sue gambe portavano il suo corpo in barca, era pure lui mezzo brillo. “Al scapuzzeva un po’ trop” e il buio lo mandava spesse volte fuori sentiero e si disse: -Ma quant’ed cal busi c’aiè- Dirò intanto di Giacomino. Non andò a casa, s’arrampicò su un altissimo pioppo e da lassù dominava un lungo tratto del rio. Quando vide in lontananza il serpeggiare della luce di Amato, aspettò che s’accostasse ancora. Poi mettendosi le mani a mò di tromba, iniziò con note lunghe e dolorose a chiamarlo: -Amatoooo! Amatoooo!- Amato si fermò di botto. –Ben mò cussè stè? Chi am ciama?- Nessuno gli rispose, fece qualche passo, e quel suo nome si ripeté più netto di prima. – Dio mè i spiritt? Ben presto quel lamento si cambiò in voce alta, poi un urlo, fu allora che prese una gran paura. Cominciò a tremare battendo i denti come avesse un gran freddo, e urlando un: -Noooo!- Prolugato, iniziò una corsa velocissima verso casa e Jacmèn chiamava e chiamava, anche quando il povero salumiere non c’era più.
Umberto Fusini