
Maurizio Marchesini
Intervista esclusiva a Maurizio Marchesini, Presidente di Marchesini Group, azienda pianorese leader nella produzione di macchine automatiche, con 2.000 dipendenti e 13 sedi produttive in Italia.
Presidente, che tempi stiamo vivendo?
Tempi non buoni. Direi una bugia se affermassi il contrario. In Marchesini continuiamo a lavorare attenendoci alle indicazioni del nostro medico aziendale. In questo momento il primo obiettivo è salvaguardare la salute dei dipendenti attraverso la misurazione della temperatura, la costruzione di paratie di salvaguardia nelle postazioni di lavoro, la distribuzione di pasti freddi da consumarsi fuori dalla mensa, per evitare assembramenti pericolosi, la distribuzione di mascherine e la presenza di disinfettanti in ogni luogo. Chiediamo a tutti i collaboratori di applicare la massima prudenza. Siamo operativi a ranghi ridotti, ma da martedì 14 aprile ritorneremo a lavorare quasi a regime completo.
In cosa consiste oggi il vostro lavoro?
Lavoriamo nella filiera del farmaco – che è aperta ed attiva – e dobbiamo quindi essere presenti per consegnare le macchine che servono appunto per la produzione dei farmaci. Il 90% della nostra produzione viene esportata all’estero, da dove in questi giorni ci stanno contattando numerosi clienti. Un’azienda di Taiwan, ad esempio, ha ordinato una linea per produrre i futuri vaccini sul Covid-19, la aspettano con ansia.
Qual è la situazione economica del settore?
Il nostro settore è sempre in funzione – rientriamo tra le attività a supporto di quelle essenziali individuate dal Governo – e noi abbiamo la liquidità che ci permette di andare avanti anche in questi momenti difficili. È nostro dovere morale ripartire al 100%, sia per il tipo di lavoro che svolgiamo sia per la salvaguardia della filiera locale. I colleghi e concorrenti tedeschi non hanno chiuso un solo giorno e non applicano neanche le nostre misure
di sicurezza. Anche in altri settori, in Germania nessuno si è fermato. Le acciaierie di Dresda, ad esempio, non hanno mai chiuso; ho sentito un amico e imprenditore di Brescia che è fortemente preoccupato perché in questo modo c’è il rischio che i nostri principali competitor si approprino di fette importanti di mercato.
Noi, dal canto nostro, ci siamo adeguati ai tempi, puntando su importanti novità su cui lavoravamo da tempo. Sul versante farmaceutico della produzione abbiamo rafforzato di molto il FAT in streaming: grazie alle ultime tecnologie riusciamo a collaudare la macchina senza la presenza in sede del cliente. Abbiamo puntato anche sull’assistenza da remoto: grazie ad occhiali a “realtà aumentata”, riusciamo a vedere cosa succede su una nostra
macchina che si trova dall’altra parte del mondo e guidare il cliente per risolvere guasti o problematiche. Certo, c’è sempre il problema dell’infrastruttura telematica: se tutti fanno telelavoro da casa, è quasi impossibile godere di connessioni potenti e veloci. E questo anche se – come mi disse a Bruxelles il referente europeo per le reti di collegamento, quando ero in visita come presidente di Confindustria Emilia- Romagna – la nostra regione è la meglio cablata in Italia. Grandi sforzi sono stati compiuti, ma siamo ancora molto indietro rispetto agli altri paesi europei.
Cosa vede per il futuro?
È un periodo difficile per tutti, sia per noi imprenditori che per i nostri collaboratori. Vorremmo tornare operativi al 100%, ma farlo in massima sicurezza. Ci vorrà tempo.
Fino ad allora, è importante cercare di dare tranquillità alle persone, anche sul loro futuro. Da imprenditore, comunque, sono ottimista per contratto, altrimenti avrei fatto altro nella vita. Certo, questa crisi non ci voleva, proprio in un momento storico in cui l’Italia si stava rialzando.
Ci sono stati errori e ritardi dello Stato nel gestire la emergenza?
Voglio essere politicamente corretto. È stata una questione molto più grande di chi governa, anzi, di tutti noi. Alla fine, forse non ci siamo mossi neanche troppo male rispetto ad altri paesi europei. Rifare quattro volte il modulo dell’autocertificazione è però indice di vaghezza. Non trovare ancora oggi i dispositivi di protezione, è un altro segnale negativo. Il Governo con gli ultimi decreti ha compiuto dei buoni sforzi economici, cercando di aiutare le aziende e le persone. Ma il problema, anche in questi momenti di maggior bisogno, resta la burocrazia. Da noi gli aiuti sono contenuti in documenti di 45 pagine. Negli USA, per fare un paragone, è stato previsto
un provvedimento per venire incontro alle “small business” – le attività sotto i 500 dipendenti, paragonabili alle nostre Partite Iva. Il decreto ha una sola pagina, con l’indicazione di una email per attivare la procedura e la richiesta degli estremi bancari. Esiste anche un altro decreto, per le società con oltre 500 dipendenti, ed è di
sole tre pagine.
Ma nulla è cambiato in Italia in questo periodo?
Speriamo che questa crisi serva a far entrare nella nostra cultura politica ed economica l’autocertificazione. Gli americani sanno bene che se dichiarano il falso finiscono in carcere, perché da loro esiste veramente la frode allo Stato. Se chiedi soldi che non ti spettano, e ti scoprono, vai in galera. Certo, di errori ne fanno molti anche
loro, ma lì le frodi vengono colpite duramente. Da noi questo approccio all’autodichiarazione fa difficoltà ad attecchire, sia per motivi culturali che di gap tecnologico.
Dovremmo però davvero cercare di fare un passo avanti in questo senso. Il rapporto tra imprenditore e privato cittadino con l’ente pubblico dovrebbe essere basato sulla fiducia; se poi la fiducia viene tradita, si agisce di conseguenza. Si tratta, è evidente, di un metodo che per funzionare richiede la disponibilità e la lealtà di entrambe le parti.
E lo “smart working”?
Quello che stiamo facendo in questo momento non è “smart working”. Il vero “smart working” richiede gruppi operativi di lavoro, incarichi chiari, obiettivi da raggiungere e controlli sui risultati. Si comincia la mattina tutti insieme, poi il capo ogni ora chiama i dipendenti per sentire a che punto sono e come procede il lavoro, con misurazioni della produttività. Penso che, in questo periodo, si sia abusato del termine. Ad ogni modo, noi le macchine in “smart working” non le possiamo costruire…
Senza contare che lavorando lontano dall’azienda si pone il problema della riservatezza dei dati e della sicurezza
online. Ci tengo a precisare che non sono contrario per principio al lavoro fatto da casa, se gestito seriamente.
Da un punto di vista umano, questa crisi cosa ci sta lasciando?
In questa pandemia, come ha detto Papa Francesco, abbiamo scoperto che non siamo onnipotenti ma uomini piccoli, granelli di sabbia. Ma che succederà quando tutto sarà finito? Io temo che ci si dimenticherà di molti comportamenti virtuosi che abbiamo imparato ad adottare. Intendo dire che non sono sicuro che la lezione sarà assorbita e interiorizzata. Le pestilenze ci sono sempre state e non sono mai servite a migliorare l’essere umano. Non mi farei troppe illusioni neanche questa volta. Spero almeno che in Africa, un paese che io amo, non succeda nulla di grave; una pandemia come quella europea provocherebbe danni gravissimi. Non ci resta
che aspettare il vaccino e l’immunità di gregge.
A proposito di Europa, come si è comportata in tutto ciò?
Oggi l’Europa si è dimostrata un’unione economica più che un’unione politica e solidale, e ciò alimenta purtroppo pulsioni nazionaliste ed antieuropeiste. Io credo però che l’Europa sia la nostra unica soluzione
per affrontare i tempi che ci aspettano. Parliamo di almeno tre, quattro anni di difficoltà post pandemia, in cui bisognerà tenere sotto controllo i venti nazionalisti che spirano da più parti. Tutti hanno interesse che l’Europa sia debole, dagli USA alla Russia e alla Cina. Ma noi europei non lo capiamo e bistrattiamo l’Unione.
Dobbiamo invece stare gli uni accanto agli altri. Solo come Europa unita siamo più forti.
Umberto Mazzanti
Gianluigi Pagani